JOSE GARCIA “EL MUCHACHO”: ANCHE LA FOLLIA MERITA I SUOI APPLAUSI

Il calcio nella sua pluricentenaria storia ha regalato al pubblico affezionato fior fior di campioni, gente dal talento impressionante che ha saputo dimostrare sul campo di possedere un bagliore divino. Maradona, Pelè ,Cruijff, Di Stefano, Van Basten sono tutti evangelisti a cui è stato affidato il compito di portare in giro la parola del dio pallone facendola conoscere ad ogni angolo della Terra.

Ci sono però altri evangelisti, un gruppo di giocatori ancora più ristretto di quello precente a cui, sì , è stato affidato un dono ma che con questo dono si sono resi autori di gesta apocrife che il mondo del calcio, per proseguire nella sua corsa alla popolarità, ha preferito cancellare dalla sua storia: è il gruppo dei magnifici squilibrati ovvero tutti quei giocatori, perché per loro di gioco si tratta, che possiedono un fuoco di talento talmente vivo al loro interno da portarli alla  combustione di se stessi e di tutto ciò che girava loro intorno.

Nel mondo del calcio di oggi questi personaggi sono sempre più rari, oserei dire prossimi all’estinzione; si sono formati degli ibridi che spesso vengono confusi con loro ma che con questi poco hanno a che fare, ci sono gli squilibrati senza talento, che si trasformano in pagliacci, e gli equilibrati con talento che spesso sono dei soldatini agli ordini di madama tattica.

Nel passato però le cose erano diverse, negli albori della storia del gioco si possono ritrovare molti “magnifici squilibrati” , rappresentazioni di giocatori legate spesso a racconti tramandati oralmente, racconti che sgomitando sono giunti fino ai nostri tempi e che meritano di essere narrati.

Oggi vi racconterò la storia di uno dei massimi esponenti di questa avanguardia calcistica, la storia del “Muchacho” uruguagio, José Garcia.

Il nostro protagonista nasce nel 1926 a Montevideo, in quegli anni la nazionale uruguagia è nettamente la più forte del Mondo, la squadra piena di talenti su tutti: Andrade, Scarone, Petrone, Iriarte e molti altri che con la palla sono dei veri e propri prestigiatori, come di consuetudine per la scuola rio platense. Sopra di tutti si erge Capitan Nasazzi ,uomo dal carisma immenso e dalla predisposizione al comando, che giocando difensore gestisce la squadra.

Con gente così vincere diviene consuetudine. 2 Olimpiadi,1 Mondiale (primo nella storia) e 4 coppe America, sono il bottino della Celeste che in quegli anni straccia il manuale del calcio portato dagli inglesi alla fine dell’800 cominciando a proporre un gioco nuovo dove la parte tecnica prevale su quella fisica.

In questo contesto calcistico il piccolo Josè inizia a prendere confidenza col pallone nei “podreros”che in quegli anni iniziano a spuntare come funghi nei quartieri di Montevideo, della sua infanzia però poco si sa, l’unica cosa certa è che da giovanissimo viene ingaggiato da una delle squadre meno blasonate della capitale, il Defensor Sportig.

Nonostante ciò nel ’45 arriva la chiamata in nazionale che ,con Nasazzi in panchina, sta effettuando un cambio generazionale che la porterà a vincere il mondiale del 1950.

Josè si dimostra in possesso di un talento cristallino,  in molte partite mette in mostra tutto il suo repertorio fatto di “marianela”, “gambetas”,”cano” , è talmente forte che ad un certo punto della partita sfida gli avversari a rubargli il pallone come un torero nell’ arena che fa avvicinare il Toro sempre più vicino, per il gusto dell’ umiliazione dell’avversario e la conseguente esaltazione del pubblico, inoltre gli viene dato il soprannome de “el loncha” a causa della somiglianza con l’attore di film horror Lon Chaney, in quegli anni tra i più celebri del genere.

Le soddisfazione col club sono pari allo zero, mentre con la nazionale viene convocato per tre edizioni consecutive della coppa America, nel ‘45 e nel ‘46 gioca poco ed arrivano due quarti posti nel ’47 invece è in pianta stabile nei titolari, la squadra uruguagia arriva terza e lui segna anche un gol contro l’ Ecuador nel 6-1 con cui “la Celeste” asfalta “la Tricolor”.

All’aumentare della sua bravura aumentano anche i soldi dello stipendio, c’è però un piccolo problema: diciamo, per usare un eufemismo, che la parsimonia non è tra le sue qualità principali, li spende tutti, divertendosi in una Montevideo, città che vive di notte, che in quegli anni quasi ti porta a condurre quel tipo di stile di vita.

La crisi delle esportazioni della fine degli anni quaranta imperversa in tutto il Sud America toccando anche l’Uruguay, i soldi non sono più abbastanza e Jesé accetta,nel 1949, il trasferimento  al Bologna, la squadra che fino a qualche anno prima faceva tremare il Mondo.

Di lui non si conosce molto ma bastano poche partite per far comprendere a tutto il popolo felsineo di che giocatore si tratta.

Alla prima partita si procura un infortunio al polpaccio che lo tiene fermo alcune settimane, torna in campo ad Ottobre con risultati altalenanti a livello di rendimento, diventando così la vittima sacrificale dei giornalisti bolognesi che lo criticano aspramente.

La sua risposta non si fa attendere: durante un’ intervista dopo alcune affermazioni poco lusinghiere da parte di un giornalista, José lo prende e gli sferra un pugno in pieno volto, scatenando un putiferio.

Il vizio per donne, alcol e notti brave se lo è portato in valigia ed anche in questo caso Bologna non è propriamente la città migliore per redimersi, va da sé  che la stagione sia evidentemente sotto le attese, nelle poche partite giocate fa però vedere cosa è in grado di fare, anche se quel suo giocare sempre al limite lo porta ad essere vittima di falli tremendi da parte dei difensori e a non essere amato dai dirigenti e allenatori che si spingono a dire “sì è forte ma con lui in campo bisognerebbe giocare con due palloni, uno per lui e uno per gli altri 21”.

La seconda stagione è evidentemente la migliore in Italia, sono nove le reti , giocando sul lato destro del campo, da interno. Con Cervellati ala e Cappello centroavanti l’urugaugio si esalta con giocate che,come sempre, vanno molto oltre il limite dello sberleffo, segna reti decisive per le vittorie con Napoli, Lucchese e Torino ed offre assist a ripetizione, sembra sbocciato ma è solo l’ennesima illusione di un mago troppo pigro. I due anni successivi sono drasticamente peggiori con grandi giocate interrotte da interminabili pause.

Nel 1953 la pazienza di tutti finisce, dopo un litigio con l’allenatore torna in Urugauy salvo poi ripensarci, ma al momento del ritorno trova il suo ruolo occupato, nell’ultima stagione bolognese giocherà la miseria di 11 partite ed al termine di questa , il presidente Dall’ara lo cederà, volentieri, all’Atalanta.

A Bergamo l’avventura non inizia nel migliore dei modi, raggiunge l’accordo al termine del mercato ma si presenta agli allenamenti solo il 7 di ottobre, da subito mette subito in mostra la sua classe in allenamento facendo divertire tifosi e compagni ma ancora non è pronto per il campo.

Esordisce col Napoli senza lasciare il segno, ma nelle settimane successive rientra in forma finchè non arrivano le due settimane che precedono la pausa natalizia, nelle quali c’è tutto Garcia.

Comincia tutto il 4 Dicembre, l’Atalanta sfida il Bologna, sua ex squadra, i Felsinei passano in vantaggio ma l’arbitro è costretto a sospendere la partita per la nebbia che è scesa fitta sul Comunale di Bergamo.

Nella gara seguente l’avversario è l’Inter, “el muchacho” decide di risvegliare il suo talento per il grande palcoscenico di San Siro sfoderando una partita magistrale, l’Atalanta è in vantaggio 0-3 quando la scala del calcio viene, di nuovo, sommersa da una coltre nebbiosa, erano altri tempi quando la nebbia al nord ancora c’era, i giocatori dell’Inter circondano l’arbitro, puntano chiaramente al rinvio e così avviene, la partita viene sospesa.

I giocatori rientrano negli spogliatoi, in quello bergamasco l’amarezza è tanta, il pensiero più diffuso è quello del “quando ci ricapita” ma a rompere quel silenzio ci pensa Garcia dicendo: “tranquilli, vinciamo anche la prossima”, Angeleri bergamasco non di provenienza ma certamente di spirito esclama “Questo è proprio matto”.

Nel recupero della gara ad avere ragione è invece José, grazie nuovamente ad un sua eccellente prestazione,infatti, l’Atalanta si porta in vantaggio per 1-2, arrivato il gol del sorpasso Garcia richiama i compagni con ampi gesti in modo da farsi dare la palla ed ogni volta che ne entra in possesso si ferma invitando il suo marcatore , Nesti, a venirla a prendere, inutile dire che il mediano interista colleziona solo brutte figure.

Stanco degli sberleffi subiti dal compagno Benito Lorenzi, detto “veleno” per la sua capacità di toccare più tibie che gambe durante una partita, intervine esclamando :”Ora basta a questo ci penso io “ e senza  badare a fronzoli si fionda sul giocatore uruguagio con un’ entrata la cui sanzione andrebbe ricercata direttamente sul codice penale, ma nulla da fare, José sposta la palla e il difensore trova solo ed esclusivamente l’aria cadendo in terra in maniera goffa, tra le risate di Garcia e del pubblico tutto.

La partita successiva è il recupero col Bologna ed anche in questo caso la prova di Garcia è maiuscola, arriva la vittoria per uno a zero, con consegueti azioni irrisorie nel finale anche nei confronti dei suoi ex compagni, quando c’è da umiliare qualcuno non si fanno prigionieri.

Questa volta però Garcia sulla sua strada trova il difensore e capitano Ballacci che, a differenza del collega interista in precedenza, lo colpisce con un calcione che gli fa finire in maniera prematura la partita.

Questa è l’ultima versione decente di Garcia in Italia, a causa dell’infortunio rimediato decide i prolungare le vacanze natalizie di almeno una settimana, al rientro segna un gol contro la Pro Patria scomparendo successivamente dal campo fino al termine del campionato.

L’allenatore atalantino arrivato al limite della sua pazienza dichiara :”a questo i soldi dovevamo darli tutti alla fine” per di più pone il veto su una sua possibile conferma.

Il 1951 si conclude la non sfavillante carriera di un saltimbanco uruguagio che da quel momento finisce nell’oblio più totale ( dopo il suo addio al calcio non si hanno più notizie) lasciando un po’ tutti, dirigenti e tifosi, con l’amaro in bocca per quello che poteva essere e non è stato.

Tutti delusi certo ma non lui , visto che l’unico amaro che ha sentito in bocca in tutta la sua vita  è stato, probabilmente, solo quello Montenegro.

Eppure è stato a suo modo un personaggio di forte personalità, figlio della sua epoca e che solo in quel periodo storico avrebbe potuto fare il calciatore, una persona che si esaltava per il fatto che riuscisse a campare alla grande grazie ad un gioco e che per questo a reso un gioco tutta la sua vita, convincendomi del fatto che in fondo anche la follia merita i suoi applausi.

 

“Adios Jose Garcia saltimbanco uruguayano

Eri così pazzo fanfarone e sconclusionato

Che i tifosi ti chiamavano il Caimano

scazzottavi ti lasciavi prendere la mano .

correvi lungo la linea di fondo ,la laterale

scartavi l’avversario lo irridevi con la mosse

e con un guizzo ,lo mandavi all’’ospedale

vecchio campione,eri un balordo .”

garcia

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